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Immagine del redattoreAmanda e Giacomo

alcuni trinomi dello yoga ||| some yoga trinomials

Aggiornamento: 11 set 2019

(english below)

ALCUNI TRINOMI DELLO YOGA

riflessioni sugli spunti che ci ha lasciato Angela nella sua visita di maggio


(doppio click)

La validità delle parole, del “detto” viene confermata a distanza di mesi, anni. C’è da riguardare e rivalutare ogni tanto gli insegnamenti che ci vengono trasmessi per confermare/aggiornare le loro impressioni su di noi, per modificarle o comprenderle in maniera più profonda.

(doppio click)


Abbiamo letto e riletto le cose scritte da Angela negli anni, trovando sempre ispirazioni, terreni comuni e amore. Nonostante la distanza da quando sono state scritte continuano ad ispirarci.

Poi, ancora non capiamo come, è venuta da noi e ci ha regalato le sue parole in diretta. Dopo qualche mese, nel mezzo dell’estate, riguardiamo note e appunti, fatti da noi, da Sasha, da Katerina: nascono associazioni e riflessioni proprie nuove. Per non lasciarvi troppo senza far niente, ecco un po’ di idee sulla pratica mentre le vacanze sono agli sgoccioli.


Il filo conduttore

Prima di arrivare, Angela chi ha chiesto di scriverle qualcosa su di noi e sulle nostre pratiche; in queste mail ha trovato un filo con cui ha cercato di dare ordine.

Quali sono i veri benefici dello yoga e come ottenerli?

Questo è il "fil rouge" che ha aiutato Angela a dare ordine alla nostra discussione intima e ludica e ad avere uno o più punti di riferimento ai quali tornare ogni volta che lo scambio di concetti ci portava a viaggiare e divagare tra argomenti filosofici e pratici.

I benefici dello yoga sanno essere latenti e invisibili, si nascondono nel nostro subconscio e nel nostro essere più sottile. Talvolta sembrano proprio non esserci e ci vogliono anni per apprezzarli, all’inizio da vicino e più avanti con distanza e analisi.

Per rispondere a questo quesito Angela ci ha illustrato una serie di trinomi...


TRINOMIO #1: il sutra 2.1


tapaḥsvādhyāyeśvarapraṇidhānāni kriyāyogaḥ (YS 2.1)


Un trinomio è un polinomio contenente tre termini.

In questo caso la somma dei “monomi” tapas (1) + svadhyaya (2) + ishvara (3)-pranidhanani compone il (è = a) kriya-yogah, rappresentato dalla “somma” dei tre monomi.

Il significato è che il lavoro fisico e la disciplina (1), lo studio di sé e dei testi (2), l’abbandono/accettazione (3) sono le tre componenti dell’azione illuminata proposta dallo yoga, ovvero quella che si realizza con tutto il corpo e la mente. È azione illuminata anche quella che agisce al di fuori dalla reazione a un avvenimento esterno e senza attuare in uno schema abitudinario: in questa azione/non-azione c’è libertà. Il kriya-yogah, in quanto azione illuminata, presenta una libertà speciale che ci permette un’azione non compulsiva né reattiva, costruita sulle qualità superiori di disciplina, studio e accettazione. Per questo il sutra 2.1 è il primo del secondo capitolo dei Sutra di Patañjali, quello che tratta il sadhana, ovvero la pratica come percorso spirituale.


Tapas è bruciare o purificare; attraverso la pratica andremo a pulire o eliminare i nostri samskaras (semi di condotta non ottimali radicati nella nostra coscienza); questi, invece di venir innaffiati, devono essere bruciati per dare spazio a nuove piante di pensiero, nuove aperture del sé che permettano la nostra evoluzione e il nostro radicamento.

Swadhyaya rappresenta lo studio di noi stessi in maniera FLESSIBILE e non giudicante. L’idea è di esaminare le nostre vite nelle loro varie componenti e come queste ultime si relazionano tra di loro. Anche i testi spirituali sono di aiuto allo studio di sé poiché alimentano saggezza e discriminazione, rendendo le nostre menti attive e ricettive. Più questa conoscenza di sé si affina, più ci troveremo di fronte agli effetti che la pratica ha su di noi e così facendo costruiremo una “fede/fiducia”, ovvero ‘shraddha’, che aiuterà il nostro cuore a percepire che siamo sulla strada.

Ishvara-pranidhana è accettazione radicale o abbandono a ciò che è più grande di noi (per alcuni dio) … cosa vuol dire, dentro di noi, rinunciare alla lotta? Accettare quello che è? Per alcuni questo si tradurrà nel credere in Dio, per altri vorrà dire accettare radicalmente e altri beneficeranno di entrambe le cose. Il lasciare stare la reattività avverrà grazie ad un abbandono o ad un’accettazione (entrambe le cose sono valide).


Essendo il kriya-yogah una pratica liberatoria, i benefici che ne derivano sono vari ed è importante servirsi degli strumenti che man mano scopriamo per poter creare meno condizionamento attorno alle nostre emozioni. Ebbene sí, lo yoga agisce anche nella sfera emozionale permettendoci di notare/accettare tutto (anche le cose meno nobili) e di lavorare su noi stessi per cambiarci e migliorarci.

E così Angela ci ha introdotto ad un secondo trinomio, legato appunto alle emozioni e alle qualità da coltivare nel nostro percorso.



TRINOMIO #2: mantra pratico


1. praticare con sincerità | 2. praticare con un ritmo regolare |

3. notare gli effetti

1. SINCERITÀ

La pratica è una meditazione in movimento ed è importante portare la mente su quello che si fa sul materassino per poter comprendere questa dimensione “più introspettiva”.

<< È da prendere sul serio>> dice Angela. La pratica non è solo una sequenza di esercizi e dobbiamo cercare di essere sinceri quando approcciamo il nostro sadhana (percorso spirituale).

Innanzitutto dobbiamo chiarire con noi stessi perché stiamo facendo questa pratica. La motivazione è una delle spinte più grandi che condizionano il nostro agire, e in questo i mantra di introduzione e conclusione della pratica ci danno degli indizi…potremmo dire che liberarci dai condizionamenti e dalla sofferenza, per il bene nostro e di tutti e tutto, sembra essere il fine più ponderato cui dedicare quello che facciamo. Cosa voglia dire questo esattamente è da scoprire giorno per giorno, rimanendo sinceri. Siccome la prestanza fisica è destinata a diminuire col tempo e potrebbe lasciarci un “vuoto”, è importante fin da subito creare un dialogo interiore sulle motivazioni che ci portano a fare yoga… Già lo sapete che se è solo per il fisico, per la dinamicità o per le posture, presto l’interesse si consuma: la pratica non è circo! Invece se sono la qualità del respiro, la presenza e l’equanimità ad attirarci allora abbiamo qualche possibilità di portare avanti questo percorso per tutta la vita e possiamo essere convinti di poter coltivare la prossima componente del trinomio: il ritmo.

2. RITMO

Se lo studente pratica con un ritmo costante la mente si stabilizzerà. Alti e bassi sono più palpabili se la pratica è tenuta con un andamento irregolare. Lo notiamo anche nella vita: se diamo un ritmo alle cose che facciamo creiamo continuità e stabilità. La pratica, agendo anche sottilmente, sul sistema nervoso, andrà a calmare i nostri vritti o fluttuazioni mentali e più sabotiamo la nostra costanza più questi tenderanno a sballarsi.

Se l’essere regolari diventa un peso perché la pratica è troppo “lunga” o “faticosa” per farla tutti i giorni possiamo provare a stare seduti quanto meno cinque minuti durante i quali respirare semplicemente producendo quel suono che assomiglia all’oceano. Possiamo farlo anche aggiungendo un drste (punto di focalizzazione), guardando dolcemente un punto. E col tempo troveremo spazio e energia.

La pigrizia può essere sostituita dall’autenticità della nostra voglia di proseguire sul proprio sadhana. Quante volte non si ha voglia di praticare e lo si fa lo stesso e poi siamo solo grati di averlo fatto perché ne sentiamo la carica positiva?

3. NOTARE

Notare cosa? Gli effetti della pratica.

Questo darà la possibilità di apprezzare il lavoro che facciamo e intravedere come la nostra vita ne viene colpita. Tanti effetti possono essere osservati: sulla concentrazione, sul metabolismo, sulla connessione con il nostro corpo, sui rapporti interpersonale, sulle reazioni agli stimoli esterni e sulla gestione dello stress.

Vale la pena distinguere il notare dal giudicare. Notare è semplicemente osservare, e farlo di per sé è trasformativo. Dal momento in cui giudichiamo creiamo tensioni e rischiamo di voler forzare il cambiamento. Notare ci aiuta anche a perseguire e rimanere: attraverso l’esperienza diretta otteniamo le conferme (talvolta non facilmente digeribili) del fatto che continuare a praticare è utile.


TRINOMIO #3: i 3 pilastri della pratica

1. tristhana | 2. vinyasa | 3. cuore spirituale

Immaginiamo che la pratica sia uno sgabello a 3 gambe; senza una di queste gambe lo sgabello cadrebbe.

1. TRISTHANA

Un sotto-trinomio: respiro – bandha – drste. Il tristhana è una meditazione perché è quella componente della pratica che ridirige i sensi verso l’interno.

[prendere le orecchie, voltarle e ascoltare dentro]

[prendere gli occhi e leggere il libro di noi stessi]

[creare uno specchio per far sì che l’attenzione torni indietro, verso l’interno]

È tecnologia.

I bandha rinforzano la nostra percezione del corpo fisico interno, attivandolo in tutte le sue sfumature più piccole.

Il drste ci invita ad allenare lo sguardo per condizionare la nostra coscienza attraverso la vista. Innanzitutto è importante che lo sguardo non si “perda” o distragga: fissando la focalizzazione in un punto impediamo alla corteccia visiva – che occupa una parte molto estesa del cervello – di produrre pensieri e sviare la mente. È importante anche dove guardiamo nel passaggio tra un drste e l’altro, cercando anche lì di non andare a fissarci su dettagli ma di mantenere gli occhi dolci e in visione periferica: guardare lo spazio tra le cose senza andare a sceglierne una. Tutto ciò ha anche delle basi scientifiche: la teoria polivagale ci informa della profonda connessione tra emozionalità, espressività facciale e funzioni corporee (attività cardiaca, digestione, ecc.). Il drste è una rivoluzione: è lo strumento più sottile per strutturare la coscienza.

Il respiro (sonoro) è il sottofondo, la base della pratica, la prima cosa che attiviamo e su cui diventiamo consapevoli. Il mezzo più semplice ed efficace per creare una connessione tra mente e corpo e per far circolare l’energia corporea.

2. VINYASA

È la maniera o la procedura per mettere le cose insieme/in ordine.

Qual è il primo vinyasa in assoluto? Angela ci ha portato l’esempio di una delle azioni più comuni e scontate in assoluto: mettere un neonato a dormire. Come calmare il sistema nervoso di un essere così minuto? Con la ripetizione di un ordine preciso di azioni gli insegniamo a passare dallo stato di coscienza vigile a quello dormiente.

I inspira su, espira giù…questa la regola generale (lasciando stare le eccezioni per il momento) con cui il vinyasa ordina e coordina i nostri movimenti durante la pratica. I movimenti tra le posture – quelle parentesi, quei purgatori – hanno un effetto sul sistema nervoso e sono da curare. Osservare le soglie, i vuoti, quelli che tenderemo a riempire con distrazioni, tutto nella vita ha un ciclo e ogni tappa conta, anche quelle prive di adrenalina come può esserlo il semplice trini (“raddrizzate la schiena, testa su”).

Inspira su, espira giù. Inspira, espira. Ekam, dve.

Ci sono molte definizioni che aggiungono significati diversi al vinyasa. Chuck ci dice sempre che è un susseguirsi di azioni progressive – un approccio “passo dopo passo” - che prevede una gradualità, una digestione, e a volte un tornare in dietro: “tornate in dietro per andare avanti”. Eh sì, il vinyasa ordina e determina ma talvolta dobbiamo fermarci e andare più piano per capirlo.

Il vinyasa ci dà anche concentrazione e ci mantiene in movimento (anche quando vorremmo finirla lì). Inspira, espira. Sembra facile ma ci sono delle occasioni in cui manca pure l’aria per finire la danza: fa niente, lo si sa, è difficile ma non scappate e non ignoratelo perché sono informazioni prezione!

3. CUORE SPIRITUALE

<<Portare il sole al cuore>>, dice Angela.

Pratipaksha bhavanam: creare intenzionalmente delle emozioni positive e portare il sole nel cuore. Il sole che è energia, forza, ricchezza, gratitudine, compassione…

Il sutra 2.33 dice che quando ci affliggono razionalità perversa o distrazioni possiamo trovare delle misure opposte adatte a contrapporle. Si tratta in pratica di elevare la nostra attitudine in presenza di avversità.

Notare le abitudini del cuore (swadhyaya), MA senza repressioni.

Se vogliamo far fuori i nostri demoni, non dobbiamo reprimere le emozioni “cattive”, queste sono da vivere insieme a quelle positive. La tristezza è talvolta utile per la guarigione così come la rabbia ci aiuta a stabilire confini sani. La pratica ci aiuterà a convivere con i nostri sentimenti e a riconoscerli.

Perché le qualità del sole? Perché ci portano a coltivare intelligenza brillante e un corpo energetico radiante e sano. Già ai tempi di Krishnamacharya iniziava ad emergere la preoccupazione che la spiritualità della pratica e questa connessione con le qualità del sole si stessero perdendo. Pattabhi Jois, rielaborando il Surya Namaskara, propose una soluzione molto democratica a questo dilemma, che permettesse a tutti di trovare una connessione spirituale con la pratica al di là di appartenenze di casta, status e entourage culturale. Il saluto al sole rende accessibile a tutti il culto del sole grazie a una connessione diretta – attraverso il corpo – con le qualità radianti del Sole. Tutti abbiamo un corpo, è lo strumento più immediato e vicino che possiamo utilizzare in casi come questi.


Sfidare la pratica

Mentre ci parlava di questo trinomio, Angela ci ha proposto una sfida: portare lo sfondo in avanti. Richiamando la teoria “figura e sfondo” della Gestalt ci ha invitato a dare maggiore rilevanza allo sfondo della pratica - al respiro.

Rendere il respiro più importante della postura. In pratica: NON iniziare nessun movimento senza aver già cominciato l’inspirazione o l’espirazione. È un consiglio che serve a principianti e avanzati in egual misura perché iniziare il movimento dopo il respiro vuol dire creare del tempo e dello spazio per lasciare fluire la pratica a livello energetico collocandoci in piena presenza e concentrazione. In più questo espediente ci salverà da ogni desiderio “performativo”: contando meno la forma finale (bella o brutta, avanzata o meno, fatta bene o male) e portando l’attenzione sul respiro, la pratica diventa una vera e propria seduta di meditazione e una vera prova di forza e umiltà.

Creando uno spazio tra il respiro il movimento diamo anche tempo alle qualità del sole di addentrarsi in noi e di esprimersi come azione illuminata nel movimento. Così vedremo il Surya Namaskara attraverso una lente spirituale e non meramente ginnastica.


TRINOMIO #4: la pratica come supporto alla vita


1. insegnante | 2. metodo (pratica) | 3. Comunità

<< prendetevi cura dei vostri rapporti, senza di essi non saremo niente >>


1. INSEGNANTE

L’insegnate risiede in noi, in fin dei conti: un maestro interiore!

Ma…

Frequentare un ambiente nato con lo scopo di ospitare pratiche e ricerche spirituali e relazionarsi con chi è più in là rispetto a noi nel cammino è importante, se non fondamentale. L’insegnante svolge, prima di qualunque cosa, un servizio ed è importante che sia solidamente stabilito in quest’idea. Quello che fa l’insegnante non è altro che indicare una strada possibile – metodo – e accompagnare gli studenti in un percorso, facendo notare, osservando e tacendo talvolta. Questa pratica è radicata in un rapporto che si costruisce in maniera sana e rispettosa tra studente e insegnante per poi allargarsi verso un gruppo più steso e coeso.

L’insegnante è e deve essere a sua volta studente, non dimentichiamolo. Siamo tutti in cammino verso una maggiore equanimità di fronte alla vastità della vita e il nostro discernimento si sviluppa attraverso una pratica profonda e costante.

Se si misura il rapporto con l’insegnante attraverso le posture che ci vengono date o attraverso il denaro, lo stesso è destinato ad essere corrotto e triste. L’insegnante dovrebbe essere mosso nel suo lavoro dal servizio e agire senza attaccamento, cercando di trovare e trasmettere un equilibrio tra disciplina e libertà. Da insegnanti si deve resistere alla tentazione di appagare lo studente per riceverne l’approvazione; ma bisogna coltivare allo stesso tempo un legame di fiducia con lo studente. Tutto ciò è difficile. Quando si riesce a creare fiducia e rispetto reciproci quello che si trasmette tra studente e maestro è impagabile perché la qualità di quella relazione è senza prezzo. L’unico modo per “ripagare” quello che ci è stato dato dai nostri maestri: è continuare a servire e a studiare.

Il servizio alla base dell’insegnamento e l’integrità alla base del rapporto studente-maestro sono come due linee che cercano di convergere continuamente.

Studente e maestro rimangono esseri umani imperfetti e talvolta possono non capirsi, ma se entrambi si dedicano ad accrescere la qualità del loro rapporto potranno trovare l’equilibrio che intreccia armonicamente la libertà e il rigore, senza turbolenze.

Shankaracharya and disciples

2. METODO

Cosa tiene insieme il rapporto insegnante-allievo?

Il metodo, nel nostro caso la pratica dell’ashtanga yoga.

Questo metodo è stato “codificato” in modo tale di poter essere condiviso e così ci troviamo a far parte di un collettivo. Per interiorizzare questa pratica e per farla diventare nostra la condivisione è importante: un’insegante, una shala, una comunità, un materassino, uno spazio comune. Inizialmente bisogna essere guidati, osservati, aiutati e corretti; man mano diventa sempre più importante respirare assieme, condividere il calore e l’energia, aiutarsi… Più cresciamo nella nostra indipendenza più scopriremo il bello della dipendenza reciproca. Anche da soli il metodo ci farà compagnia - è e sarà sempre lì: accessibile ma rigoroso, bello e ordinato ma fluido e organico. Riusciremo a praticare da soli, ma noteremo sempre quanto gioviamo dall’essere un coro.

Il metodo e la pratica prendono tempo: sono fissi nella loro struttura ma variabili in quanto alla loro comprensione, che si affina col passare degli anni. La stessa cosa che facciamo tutti i giorni sul materassino presenta varie sfumature, toni, colori. Cambia e non cambia. Ma l’unico modo per apprezzarla nella sua interezza è la costanza.


3. COMUNITÀ

Eventualmente il rapporto e il metodo danno luogo ad uno spazio comune per praticare con integrità, dove le regole servono a coordinare l’ondeggiare del respiro senza sabotaggi. La shala ospita un intreccio di rapporti e di pratiche che finiscono per diventare un organismo unico, auto-organizzato e coeso. L’insegnante stabilirà regole e meccanismi che si adeguino al contesto e al gruppo di studenti, i quali a loro volta supporteranno la struttura (la casa) con le loro pratiche, il loro impegno, la loro curiosità e la loro presenza. Questo insieme dà vita al metodo: ogni presenza contribuirà a mantenere la pratica dell’altro, i respiri degli altri creeranno la musica di sottofondo che accompagnerà il nostro lavoro sul materassino e sosterrà un collettivo sensibile e aperto.


Non c’è due senza tre, ma neanche uno senza due. In queste (ed altre) equazioni di tre monomi troveremo una formula vincente, equilibrata e insomma un sorriso o un cuore, che in fin dei conti – semplificando – è quello che ci dovrebbe dare l’ashtanga yoga come pratica spirituale.


© Giacomo Coppo e Amanda Marquez

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