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conversazione#5 ||| talk#5

(english below...soon)


CONVERSAZIONE #5

oltre la pratica, l’inchiesta sul sé


I cinque colori accecano.

I cinque suoni assordano.

I cinque sapori confondono.

Le gare e la caccia conducono alla follia.

Gli oggetti preziosi portano al male.

Così, il saggio cura i suoi sensi

preferisce l’interno all’esterno.

--Tao Te King XII--


La pratica - il sadhana - è un esercizio costante e paziente per disciplinare la propria mente e il proprio corpo. Di per sé rimane un’azione legata al karma, attraverso cui l’ego può essere messo a bada, ma mai dissolto. Di per sé la pratica degli asana, della meditazione, la ripetizione di mantra – qualsiasi pratica! – non libera nel senso più alto del termine, non ci renderà mai “illuminati”. Qualcuno (di molto intelligente e che insegna yoga) ci ha detto “lo yoga è stupido”; ma bisogna andare a guardare oltre quella stupidità, oltre al banale esercizio, cosa c’è lì dentro? Dentro di noi? Qual è la differenza tra la pratica meccanica e ripetitiva e quella che ci porta a vedere dentro?

La pratica può essere un brillante strumento di osservazione di sé: mostrerà - a chi vuole vedere – quando agiamo solo per reazione, sopraffatti dai sensi o dai pensieri; aiuterà – chi vuole essere aiutato - a conoscere, controllare e dirigere il proprio corpo, la propria mente e le proprie azioni.

E questo non è poco considerando quanto siamo manipolabili come individui, sia direttamente dagli altri che indirettamente, impersonalmente, attraverso i media. E non perché vogliamo essere complottisti, ma è utile ricordarsi che attraverso algoritmi è possibile sfruttare i dati di utilizzo personale del web per ricostruire le preferenze personali e influenzarci attraverso messaggi mirati a condizionare le nostre scelte. Yuval Harari racconta molto bene questi fenomeni ed ascoltandolo/leggendolo ci rendiamo davvero conto di quanto conoscersi sia l’unica arma che abbiamo per difenderci dai computer, dalla propaganda e dagli stimoli mirati. C’è una intelligenza sola che potrà essere al nostro servizio: quella risiedente dentro di noi.


Riconoscere ciò ed avvicinarci a degli strumenti per essere più padroni di sé è un gran dono – non a tutti arriva! – e con il tempo e la costanza possiamo imparare a imparare.

Krishnamurti al riguardo ci dice che l’unico modo per conoscere noi stessi è quello di osservarci, senza reprimere quello che non ci piace. Dal momento in cui siamo sinceri e accettiamo quello che siamo, allora potremo essere altro. Se, per esempio, siamo stressati, non c’è bisogno di imporci uno stato di non-stress, ma di capire completamente perché lo siamo, da dove arriva e lasciarlo stare. Allora poi, quasi in automatico, si potrà instaurare un sentimento diverso. Come anche la fisica quantistica un po’ ci spiega: l’osservazione è sufficiente per trasformare la/le realtà.

Un altro concetto affascinante (e un po’ estremo) su cui insiste Krishnamurti è che le nostre risposte a stimoli/avvenimenti non dovrebbero arrivare dal pensiero, che è radicato nell’esperienza e nella memoria e quindi nel passato. Le nostre reazioni dovrebbero sempre il più possibile esistere nel presente, dove semplicemente agiamo con occhi nuovi, innocenti e principianti, in accettazione radicale di quello che c’è. Questo è ovviamente estremo perché riconosciamo tutti l’utilità di poter mettere a frutto la nostra esperienza passata per risolvere le situazioni/i problemi che ci si presentano oggi; però abbiamo anche idea di cosa voglia dire agire meccanicamente, senza stupore e meraviglia per quello che c’è, “perché tanto ormai sappiamo”, “perché è meglio così, fidati”.


Ora – parere di parte – la pratica dell’ashtanga yoga è eccellente per capire quali sono i nostri meccanismi di comportamento ed osservarli. Il conteggio della stessa è un telaio perfetto nel quale possiamo inserirci e capire se riusciamo a rispettarlo o a sabotarlo. La dimensione magica del conteggio è che nella sua ripetizione quotidiana impariamo a guardarci da vicino, siamo messi davanti a le nostre manie…cosa aggiungiamo? Cosa togliamo alla pratica per rendercela comoda? Perché lo facciamo? Queste domande possono darci indizi su altri aspetti delle nostre vite. Il conteggio ci regala un paio di ore di cornice dove proviamo ad allinearci col respiro e con il movimento: semplice! – sembra facile ma è molto difficile. Con gli anni, ci verrebbe da dire, la struttura del nostro corpo si allineerà alla pratica. Ancora più in là il nostro corpo e la nostra mente diventano un tutt’uno.

E non ci basta? Vogliamo ancora di più?


Svuota la tua mente.

Mantieni il tuo cuore sereno.

Quando i Diecimila Esseri si uniscono,

io contemplo il loro ritorno.

Perché fioriscono,

ognuno tornerà alle sue radici.

Ritornare alle radici è incontrare la pace.

Incontrare la pace è compiere il destino.

Per compiere il destino ci vuole costanza.

Conoscere la costanza si chiama intuizione.

Se si disconosce la costanza,

questa cecità porterà al disastro.

Se uno conosce la costanza,

si capirà e si abbraccerà tutto.

Se uno capisce e abbraccia tutto,

si sta facendo giustizia.

Essere giusto è essere re;

al re si apre il cielo;

il cielo è uno con il Tao;

essere uno con il Tao è conformarsi.

Agendo così sarai salvo e integro

anche dopo la scomparsa del tuo corpo.

--Tao Te King XII--


Forse no, forse sì. Dipende da come stiamo, dipende da cosa ci motiva ad andare oltre. In realtà non serve nemmeno andare oltre, non c’è neanche un “oltre”, “andare oltre” non significa altro che “tornare qui”. Ma a volte l’inquietudine, il senso di inadeguatezza, il bisogno di capire e dare senso è tale che ci proviamo ad andare oltre. Cominciamo un pellegrinaggio, un viaggio. Come ci descrive S.B. Kopp questo viaggio è un ponte e ogni uomo deve attraversare il suo ponte. E non è facile, il successo non è garantito, bisogna perseverare, con determinazione e coraggio intellettuale. Ma ricordatevi che potete rimanere a casa, al sicuro. Non intraprendete il viaggio senza rendervi conto che “la strada non è priva di pericoli”. Vi costerà la vostra innocenza, le vostre illusioni, la vostra certezza. Attraversato questo ponte capiremo che ciascuno di noi ha già raggiunto lo stato di Buddha. Dobbiamo solo riconoscerlo. Ciascuna delle nostre vite può diventare di per sé un pellegrinaggio spirituale, una ricerca in esilio, senza fine. (1975, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo.)


Gli Yoga Sutra di Patanjali ci parlano di 5 ostacoli (klesha) che oscurano la conoscenza del sé. Nel secondo capitolo dei sutra questi vengono elencati nel seguente ordine: avidya (ignoranza), asmita (senso dell’io / identificazione), raga (attaccamento / piacere), dvesa (avversione / dispiacere) e abhinivesha (paura / morte).

Il primo klesha, ovvero avidya è il velo più coprente in assoluto, va ad accecarci completamente rispetto a chi siamo. È l’ignoranza, non nel senso nozionistico ma di percezione spirituale: significa scambiare un oggetto per un altro o addirittura per l’opposto. Gli altri 4 ostacoli concorrono ad aumentare questa ignoranza e per questo “si annullano” in uno stato di conoscenza. Il secondo ostacolo è asmita, ovvero il senso dell’io, l’identificazione dell’“Io” con il proprio corpo e la propria esperienza. In qualche modo potremmo dire che asmita è la nostra narrativa personale. Eddie Stern in One Simple Thing, parlando dei klesha, dà una bella descrizione di come ci capiti di entrare in un personaggio. Il protagonista della nostra narrativa si circonda di persone e oggetti che lo aiutano a ribadire, confermare e rafforzare questa identità. Automaticamente ci troviamo di fronte al terzo e quarto ostacolo: raga e dvesa, che fanno parte di questa stessa narrativa. Raga rappresenterà i nostri gusti e attaccamenti (le nostre preferenze) mentre invece i dvesa sono quelle cose che “non mi piacciono”, per cui proviamo avversione. La verità è che entrambi i “gusti e disgusti” sono forme di attaccamento che andranno a rinforzare la nostra identificazione con una narrativa personale. Finalmente la paura (abhinivesha: paura in senso lato o in senso di estinzione/morte); da dove arriva?


--> l’ignoranza – l’incapacità di riconoscere il Sé – porta a creare un’immagine che chiamiamo “io”.

--> questa è costituita da ciò che ci piace e ciò che non ci piace, cose che scegliamo accuratamente per illustrare “chi siamo”.

--> ma per quanto ci impegniamo questa identità è indebolita e messa in dubbio da tanti fattori ed eventi che non sono sotto il nostro controllo.

--> sentiamo la sua fragilità e così abbiamo paura, paura di perdere le nostre sicurezze, di morire, non nel senso della morte vera e propria, ma di perdere quella narrativa che ci siamo inventati, paura di non sapere chi siamo.


Intendiamoci, avere una narrativa e sviluppare una personalità non sono dei “mali”. Sono il modo sociale che abbiamo creato per interagire, nonché parlare (e pensare) su di noi come individuo in una società. Il problema delle narrative è che limita la nostra capacità di compiere una ricerca spirituale. Addirittura a volte possono esserci attribuite/imposte da altri trasformandosi in gabbie opprimenti, e in questi casi è ancora più fondamentale riuscire a manipolarle e “smascherarle”.

L’individualità personale rimane un costrutto complesso costituito dall’incrocio di moltissimi assi identitari: a volte la società esalta/demonizza uno o alcuni di questi assi identitari in particolare e ci marchia. Ma nessun asse identitario è davvero quello che siamo………… Chi siamo?

È qui che comincia il pellegrinaggio!

“Chi sono?” (anche “Da dove vengo?” e “Dove sono diretto?”) sono le domande fondamentali di ogni percorso spirituale interiore. Non hanno una risposta facile e probabilmente mai definitiva, ma solo l’atto di porcele ci pone in quello stato di presenza, attesa, ascolto e assenza di giudizio che servono ad avvicinarsi alla nostra coscienza e a quella universale. Chi si pone queste domande comincia un viaggio, un’avventura non priva di fatica ed ostacoli, ma alla fine della quale può sperare di trovare un senso profondo (e collegato a tutto il resto) per la sua esistenza. Sicuramente almeno una volta nella vita, probabilmente da adolescenti, abbiamo affrontato queste domande (con diversi gradi di serietà). Ma se ci pensate adesso, quanti di quelli che se le sono poste possono dire di essere arrivati in fondo al percorso che gli si era mostrato davanti? E quanti sono stati sviati? Quanti si sono accontentati di parziali risposte o si sono fatti trascinare dagli impegni della vita dimenticando la forza di quegli interrogativi?

E cosa può esserci alla fine del viaggio? Non è l’amore puro? Quello che risiede nell’attenzione totale, nella presenza e nell’unicità?


Perché in fin dei conti questo pellegrinaggio ci riporta al punto di partenza e ci fa riconoscere che tutte le diversità sono apparenza, che siamo tutti apparente e puntuale espressione di un’unica gioia creatrice. Ma per quanto ce lo possano raccontare, solo l’esperienza personale di totale e sincero abbandono a queste domande può farci capire che non c’è niente da capire.


© Giacomo Coppo e Amanda Marquez


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