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Immagine del redattoreAmanda e Giacomo

ritualizzare ||| ritualizing

Aggiornamento: 25 ago 2019

(english below)


RITUALIZZARE.

Oltre la religione, oltre il nichilismo, per la riaffermazione di un senso profondo.


A chi (non) piacciono i rituali?

Strette di mano, inchini, foto di famiglia, colazioni della domenica, ninna nanna e storiella prima di addormentarsi, bacio della buona notte, riposino del pomeriggio, pranzi e cene di Natale, guardare il discorso del presidente della Repubblica, lenticchie mutande rosse e vestito nuovo a capodanno, “il solito” caffè al bar, passeggiate col cane, canzoni di buon compleanno e tirate d’orecchie, desideri spegnendo la candelina, desideri mangiando i primi frutti di stagione, desideri guardando le stelle cadenti, feste di matrimonio, rituali contro il malocchio, anniversari, raccogliere le castagne d’inverno, le pulizie di primavera, fare la marmellata o la passata d’estate, ultimo bagno delle vacanze, diciottesimi, esami di maturità, riti di iniziazione, cerimonia di laurea, brindisi guardandosi negli occhi, dopo il gatto nero non si attraversa, toccare legno, mano destra, mano sinistra, preghiere, letture davanti al fuoco, baci della buona notte, messaggi WhatsApp del lunedì mattina, saggi di fine anno, cartoline, lettere di ringraziamento, visite al cimitero nel giorno dei morti, grigliate e picnic d’inizio stagione, raccogliere sassi o fiori o foglie quando si è lontani da casa, fare collezioni, andare al mercato lo stesso giorno alla stessa ora, rituali nei “giorni di luna”, bagni purificatori, chiesa alla domenica, pellegrinaggi, bagni d’olio, massaggi, meditazioni.

La pratica stessa è un rituale: purificazione quotidiana, sadhana, onorare il lignaggio, atto di presenza, meditazione in movimento, risveglio del corpo, comunque la vediamo…


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Talvolta abbiamo la tendenza a rinchiudere le cose in concetti, agendo come se il mondo fosse a noi grazie alle parole. Chiaramente non lo è. Concettualizzare ed etichettare sono tic umani che permettono di costruire conoscenza e comunicare, ma cosa succede se non riusciamo a farne a meno? Veniamo intrappolati nelle nostre proprie narrative e finiamo noi stessi in delle scatole. Non è facile liberarsi da (pre)concetti ed etichette, liberarsi dalle abitudini e dai contesti che impediscono la fusione di lati diversi del nostro cervello e permettere al nostro lato più intuitivo (cosmico?) e intelligente di fluire. Se teniamo il nostro percorso spirituale (sadhana) segregato unicamente a momenti specifici di “pratica”, totalmente staccato dalla dimensione sociale e lavorativa della nostra vita fatta, è molto difficile che questo possa avanzare. Solo superando questa divisione e cercando un terreno comune su cui coltivare i diversi “pezzi” della vita cominciamo a vedere dei risultati. Quando diamo più valore e centralità al nostro sadhana, cominciamo a percepire un senso d’interezza più ampio e raggi di equanimità possono cominciare a splendere qui e là. Le cose si allineano quasi naturalmente, nel nostro tentativo di rinascere ogni giorno. È un paziente lavoro di decostruzione/ricostruzione di sé che ci mantiene in continua osservazione/valutazione su come proviamo a tenere insieme le nostre vite e la nostra pratica, cercando di stendere un tappetino magico che possa accogliere entrambi, e farle volare.

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Rito, lat. RITUS, sanscrito RITIS (andamento, disposizione) ha in comune la radice RI- (andare, scorre) come un Rivo, un Rio, un fiume!


Il rituale sembra essere parte essenziale dell’essere umano: presente ognitempo in tutte le forme di società, serve innanzitutto a dare ordine alle nostre vite e gestire l’infinità - misurando il ripetersi cosmico delle cose.

I movimenti planetari e astrologici hanno un ripetersi spesso ciclico e per la vita sulla Terra l’anno solare scandisce un ritmo costante con l’alternanza delle stagioni, che da sempre è celebrato nei suoi momenti più rappresentativi. Come se riscontrare che il fenomeno che succede oggi è lo stesso fenomeno che succedeva un anno fa desse un senso al tempo e all’avanzare della vita. Festeggiare la nostra capacità di riconoscere omologie così fondamentali, talune anche molto distanti temporalmente, e sperare nel perpetuarsi di questa feconda ripetizione. Così sono nati il Natale, la Pasqua e tantissime altre feste sia religiose che popolari.


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Perché non raccontiamo ai bambini che il Natale non a caso viene pochi giorni dopo il solstizio invernale - ovvero quando le giornate cominciano di nuovo ad allungarsi - e che la Pasqua coincide con la prima luna piena della primavera? Perché preferiamo associare a queste feste storie religiose e immagini di marketing posticce, anziché dare significato pieno alle cose cercando una connessione con ciò che ci sta intorno?

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Altro sono le cerimonie di comunità, che danno un senso di appartenenza e di solidarietà. Le feste di paese, le sagre e le feste patronali…le comunità più fantasiose si prodigano in festività e giochi complessi e affascinanti, e queste esperienze condivise uniscono gli individui in legami fortissimi.

In Catalunia (Spagna) vive la tradizione dei castells (castelli), ovvero torri umane dalla struttura precisa e complessa, alte fino a 15 metri, messe in scena in momenti importanti della vita comunitaria. Data la difficoltà dell’opera, i castellers (castellari) si allenano durante tutto l’anno, regolarmente, in gruppi coesi e intergenerazionali di uomini donne e bambini. Per far sì che il castello non crolli bisogna dare tutto il proprio impegno e fiducia, bisogna stare vicini – stretti braccio a braccio – e motivarsi a vicenda. L’emozione che si crea in questo rituale è fortissima e supera qualsiasi differenza, stringendo chi vi partecipa in un unico coro.

Altro ancora sono i rituali più propriamente definiti “di passaggio”, che accompagnano chi li esegue verso un nuovo stadio della vita personale. In alcune comunità indigene il passaggio alla vita adulta è scandito da vere e proprie iniziazioni; da noi sono i diciottesimi e gli esami di maturità a marcare questi momenti – con molta meno poesia – e per alcuni (nostalgici di nobiltà) sopravvivono i balli delle debuttanti. Certamente anche i matrimoni sono rituali di passaggio. In generale possiamo notare come questi rituali ci pongano in uno stato ‘laminale’ fuori dal tempo in cui si è senza “status”, divisi tra due posizioni, due identità, tra un ‘prima’ e un ‘dopo’.

Infine possiamo associare al rituale anche quelle usanze che ci inventiamo – e a volte trasmettiamo ad amici e parenti – per attrarre il buono auspicio. La ripetizione di ‘mosse’ precise, la scelta di un colore d’abito particolare, ascoltare la canzone giusta prima di una prova importante o portare con noi oggetti-amuleto prima di un esame o un incontro decisivo; tutti questi sono rituali che ci aiutano a superare lo stress e l’ansia da prestazione, trovare fiducia e concentrazione e dare il meglio di noi stessi. Sono anche prova della nostra creatività e abilità di donare senso e importanza alle nostre azioni.


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La cultura, la scienza, i viaggi e l’incontro col diverso aumentano il nostro senso di relativismo culturale e ci mostrano l’infallibilità delle credenze tradizionali, liberandoci dalla paura delle superstizioni. Ma un nichilismo e un cinismo estremi rischiano di svuotare la vita di ogni senso, privandoci di riferimenti.

E il bello sta proprio qui: è possibile una riconquista sincera e libera del rituale per arricchire di valore aggiunto le nostre esperienze?

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Sàcro, lat SAC-RU(M). Radice indoeuropea SAC-, SAK-, SAG- (aderire a, avvincere - la divinità), radice sanscrita SAC-ATE (seguire, accompagnare, adorare – la divinità).

I rituali, come spiega Charles Eisentein (autore di “Sacred Economics”, consigliatissimo per chi avesse voglia di leggere un po’di economia del cuore), sono infusi di sacralità - egli sogna un’umanità che, un giorno, non farà più distinzione tra sacro e non, perché tutte le azioni saranno diventate sacre.

Se andiamo oltre all’associazione di ciò che è sacrale ad un significato religioso e pensiamo a qualcosa di sacro come a qualcosa che abbia un valore profondo (personale e universale) possiamo cominciare ad apprezzare davvero il sogno di Eisentein. E allora potrebbe venirci voglia di cominciare a “ritualizzare” le nostre azioni cercando di attribuire ad ognuna di esse valore e significato, lasciando spazio per apprezzare gli aspetti più semplici della nostra routine.


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Il pensiero non può anticipare quello che l’esperienza ci dà. È strabiliante quello che accade quando permettiamo all’esperienza di prendere spazio rispetto al sapere. Quando lasciamo prevalere il momento presente su ciò che abbiamo appreso in passato. Avete mai provato a vivere il presente attraverso una percezione diretta e non ascoltando la “storia” della realtà che ci scriviamo in testa?

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Eddie Stern nel suo libro “One Simple Thing” dice che è l’atto della presenza, una presenza totale, a trasformare l’abitudine in rituale. Allora se lo yoga ci aiuta ad essere più presenti potrebbe aiutarci a “ritualizzare” le nostre abitudini e in generale le nostre azioni… Ma perché, in ultima istanza, questo è desiderabile? Per trovare un senso sottile e profondo, individuale e condiviso, alle nostre azioni: una connessione significativa tra il tutto e quello che facciamo! Perché ancora più importante di quello che facciamo è con quale motivazione, quale spinta agiamo. Questi sono i significati nascosti che muovono il mondo e lo dirigono a un dato termine o destino.


Angela Jamison ad Amsterdam ci diceva che 3 sono gli elementi base che compongono un rituale:

1. chiedere una benedizione/determinare un’intenzione per innalzare la nostra consapevolezza e aprire il cuore.

2. fare un’offerta: il momento nel quale abbiamo carta bianca per addentrarci nel rituale e nelle sue procedure.

3. dedicare i benefici del rituale ad altri, ribadendo che quanto fatto non è stato fatto per egoismo.

Sotto questi occhi la pratica dell’Ashtanga Yoga è un rituale completo: il mantra iniziale è la richiesta di benedizione e apre il cuore alla gratitudine e alla gioia; l’offerta è la pratica stessa, fatta di attenzione ed energia e costruita attorno al vinyasa – susseguirsi ordinato di azioni da ripetersi con precisione; il mantra finale è il momento in cui rendiamo il merito agli altri, chiedendo prosperità, pace e gioia alla vita sulla Terra.

Se siamo capaci di farlo quando pratichiamo, allora possiamo applicarlo a qualsiasi cosa: la preparazione di un pasto, una conversazione, una passeggiata, un bagno, ecc.


Pausa: inspirate, espirate, passeggiate e poi tornate a leggere.


Purtroppo osserviamo un consenso diffuso verso il fatto che semplicità e ordinario siano sinonimo di banalità e noia e la tendenza a riempirsi di distrazioni per compensare questa noia, finendo con l’essere distaccati da quello che facciamo.


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Yona Friedman, architetto poetico e utopico, spiega che un carattere fondamentale che abbiamo in comune con il resto dei vertebrati è proprio la temporalità e periodicità che regola le nostre vite durante il giorno e la notte. Nonostante ci siano esseri che lavorano inquieti durante la notte ed altri, intorpiditi verso la vita, aspettano il sole per cominciare la loro attività, solo l’uomo tende a rifiutare il battito biologico della vita terrestre, sabotando il sistema e rifiutando questo “ritmo rituale”.

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Nel nostro vivere più quotidiano, qualsiasi azione ripetuta regolarmente scandisce con un ritmo preciso la giornata o la settimana, dando ordine al susseguirsi continuo del nostro operare. E dunque una qualsiasi di queste azioni è un potenziale rituale. Certo si può anche vivere tutto ciò come mera abitudine routinaria. Sta alla nostra mente e ai nostri occhi il compito di mantenere vivo lo spirito del rituale. Così svegliarsi, vestirsi, rifare il letto, lavarsi i denti, salutare i propri familiari, uscire di casa, ecc. possono diventare qualcosa di più della “solita routine”: certo essere fantasiosi e arricchire questi momenti di piacevoli dettagli è compito nostro. Proviamo ad accompagnare tutti i nostri “rituali quotidiani” con un sentimento di gratitudine; apriamo le porte alla contentezza che ne fa parte e permettiamoci di perdere qualche secondo in più per dar sfogo alla nostra fantasia per rendere più nostri questi momenti, aggiungendo un significato e un piacere del tutto personale: vi sorprenderà quello che potete incontrare!


Possiamo tutti trasformare la nostra vita rendendola piena di piccoli rituali che rispettano e onorano la sacralità vita nella Terra, appagando il nostro spirito. Non dobbiamo diventare monaci per realizzare questo. I rituali di cui parliamo non ci debbono legare – non servono a creare nuovi attaccamenti. Possiamo e dobbiamo essere liberi e creativi, basta che apriamo i nostri cuori allo stupore e alla gratitudine. Proviamo a essere gentili e propositivi, a giocare ma allo stesso tempo essere seri, a mantenere un’attitudine di accettazione verso l’inevitabilità del cambiamento, a conservare i nostri rituali freschi e non trasformarli in meccanica abitudine.

Così parrebbe che i rituali sono arrivati per rendere le nostre vite più facili permettendoci di agire in maniera semplice, sacra e amorevole. C’è spazio sia per la libertà individuale che per l’impegno sociale e in base a questo potremmo far parte, eventualmente, di un piccolo gruppo alla ricerca delle stesse qualità.

I cambiamenti si apprezzano in maniera reale nel piccolo, perché nella piccola dimensione il consenso è palpabile, reale. La missione è avviata, sta a noi segnarne l’evoluzione. Manteniamo rituali e routines semplici, in mezzo a una piccola comunità, ma senza dimenticare che facciamo parte di qualcosa di più grande.



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RITUALIZING.

Beyond religion and nihilism, for the averment of a deep personal sense.


Who does (not) enjoy rituals?

Shaking hands, bowing, family pictures, Sunday breakfasts, nap time, goodnight story, goodnight kiss, Christmas dinner, listening to the president’s speech, lentils and red panties for new year’s eve, usual coffee at the usual coffee shop, taking the dog for a walk, happy birthday melodies, birthday candle wishes, shooting star wishes, weddings, evil eye removal rituals, anniversaries, chestnut picking during the winter, spring cleanse, last summer dip, initiation rituals, graduation day, looking in the eye when toasting, black cat superstition, touch wood, right hand, left hand, prayers, reading next to the fire, texting on a Monday morning, end of school shows, postcards, thank you notes, graveyard visits, picnics, picking up rocks or flowers when away from home, collections, going to the market always on the same day and time, moon day rituals, cleansing baths, church on Sunday, pilgrimages, oil baths, massages, meditations.

The practice itself is a ritual: your daily purification, sadhana, your honoring of the lineage, your act of presence, your moving meditation, whatever it might be.


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We tend to categorize our rituals, enclosing ideas/things in concepts, as if the world was to be ours through our words. Clearly it is not. Conceptualizing and labeling are human tics that have come to stay, apparently. We get caught up in our own narratives and end up enclosed in boxes. It takes years to free ourselves from (pre)conceptions and labels, to deconstruct ourselves and to allow our more intuitive (cosmic?) and intelligent sides to flourish; while also letting go of habits and contexts – which aren’t chosen – that prevent us from this deconstruction and fusion of diverse aspects of our brains. If our spiritual path remains segregated only to those moments where we are “taking practice”, totally unlinked from our social and work dimension, then it will be difficult to progress. Only by overcoming this division and by searching for a common ground to cultivate these different “pieces” of life we will start to have a glimpse of some positive outcomes. When we make our sadhana valuable and central we start to perceive a larger sense of wholeness along with equanimity rays that shine here and there. Things align almost naturally in our attempt to be reborn every day. Deconstructing and reconstructing is a task that demands patience and it keeps us in continuous evaluation on how we are trying to hold together both our lives and our practices, aiming to roll down a magic carpet that can welcome both and make them fly.

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Rito, lat. RITUS, Sanskrit: RITIS (course, disposition) has in common the root RI- (flowing, stream) like a stream, a RIver!


Ritual seems to be an essential part of the human being.

Forever present in any form of society, it mostly serves to give order to our lives: to manage the infinite by measuring the cosmic repetition of things. Planetary and astrologic movements have a repetition cycle and for the life on Earth they represent the seasonal alternation, often celebrated, through the solar year. As if encountering today what was happening last year on this same date could give sense to time and to life as it moves forward, while also celebrating our capacity to recognize these important analogies – even if distant time-wise – and hoping to perpetuate this fruitful repetition. This is how we might have ended up celebrating Easter, Christmas and other religious or popular occasions.


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Why don’t we tell children about how Christmas is celebrated, not by chance, a few days after the winter solstice a.k.a when days start to get longer again; or that Easter matches the spring’s first full moon? Why do we prefer to associate these celebrations to religious stories or to marketing false advertising, instead of giving full meaning to these and attempting to connect more deeply with what surrounds us?

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On another realm of rituals, we have community ceremonies which embrace belonging and solidarity. Town fairs, patronal festivals and folkloristic celebrations… the more imaginative communities will carry on feasts and complex and fascinating games, and these shared experiences bring together individuals through strong bonding. For example, in Catalonia (Spain) the castells (castles) traditions stands solidly throughout the years; human towers, up to 15 meters high, are performed with precise structures put together by an engaged community. Given the difficulty of the work, the castellers (castlers) will train regularly throughout the year in intergenerational groups that gather women, men and children. To make sure that the castle won’t collapse trust and effort is required, everyone stays close and strong and supports the other. The emotion that is created in this ritual is very strong and surpasses any possible difference between participants, holding together all of them through a unique chorus.

There are other rituals, “of passage”, that guide those undertaking them to a new stage of life. In some indigenous communities, the migration to adulthood is punctuated by initiation rituals; for us westerns we would celebrate our 18th or 21st birthdays or our high school final exams – with way less poetry one could say – and for some, the debutante balls persist in a nostalgic way. Certainly, also marriage marks a passage enshrining the exit from the single celibate life and the entrance to the husband and wife one, the constitution of a new family. In general, we can notice how these rituals put us in a “on hold” status, outside of time and place and in the middle of two points, two identities, in between a “before”and an“after”.

Finally, we could associate ritual to those habits we make up – and sometimes pass on family and friends – to attract good luck. The repetition of precise “moves”, the choice of a particular color, listening to that song or carrying with us our amulet of luck. These will help us to overcome stress and performance anxiety while finding trust and concentration to give our best. They also prove our creativity and ability to give sense and importance to our actions.


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Culture, science, travelling and meeting diversity increase our sense of cultural relativity and show us the infallibility of traditional beliefs, freeing us from superstition. However, extreme cynicism and extreme nihilism might empty our lives from all sense as we lose references.

The beauty is right here: is it possible to regain sincerely and freely the ritual as to add value to our experiences?

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Sàcro, lat SAC-RU(M). Indo-european root SAC-, SAK-, SAG- (adhere to, to enthrall – the divinity), Sanksrit root SAC-ATE (to follow, to accompany, to adore – lthe dinivity).


Rituals, as Charles Eisentein (author of Sacred Economics, highly recommended if you want to read about economy coming straight from the heart) explains, are infused with sacredness – he dreams about a humanity that, one day, won’t distinguish between sacred and non-sacred because all actions would have become sacred –. If we go beyond the association we make between sacred and religious and we just think about sacredness as something of deep value (personal and universal) then we can appreciate Eisentein’s dream. And this is how we could start to embrace“the ritualization” of our actions by making them meaningful, enlightened and valuable, making some room to enjoy the most simple aspects of our routine.


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Thought can’t anticipate what experience gives. It is astonishing what takes place when we allow experience to take more room than knowledge. When we allow the present moment to prevail above from what we have learnt in the past. Have you ever tried to live the present through direct perception and not by “listening” to the story we have written in our minds?

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Eddie Stern in his book “One Simple Thing” says that by being present, totally present, we transform the habitual into ritual. Under this light, yoga – if used and understood as an instrument to create presence- could help us to “ritualize” our habits and more generally our actions. But why is this desirable ultimately? To find a subtle and profound sense, individual and collective, in our actions: a significant connection in everything we do! Because the motivation and drive behind our actions are more important than the actions themselves. These are the hidden meanings that move the world and steer it towards somewhere or something.


Earlier this year in Amsterdam, Angela Jamison mentioned three basic elements that form the ritual:

1. Ask for blessing. Set an intention that heightens our awareness and opens our hearts.

2. Make an offer: this is the moment we have a blank paper that allows us to get into the ritual and its procedures.

3. Give the merit away, dedicate the benefits to others. This just clarifies furtherly how the ritual does not come from an egoistic place (it is not about one’s self).


From this perspective the Ashtanga Practice meets all three points: the opening mantra asks for blessings and opens the hearts towards gratitude and joy; the offer is the practice itself, made of energy and built around the vinyasa – this succession of steps to be repeated orderly and precisely –; the final mantra that asks for prosperity, peace and joy for all beings on Earth, this is where we give the merit away.

If we use this technology when practicing then we could apply it to pretty much everything: cooking, conversation, a walk, a bath, etc.


Now take a pause: inhale, exhale, take a walk and then come back to read.


Unfortunately, there is a widespread consensus around the idea of simple and ordinary being boring and trivial and a tendency to replace and compensate this boredom with distractions that detach us from what we do.


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Yona Friedman, poetic and utopic architect, explains that one common feature we have with other vertebrates is the temporality and periodicity that regulates our lives during the day and the night. Despite there are some beings that are restless and work through the night while others are number, only the man tends to refuse the biological heart rate of our earthly life, sabotaging the system and trying to deny the natural “ritual rhythm”.

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In our daily lives, any action that repeats regularly will scan our day or our week with a very precise rhythm, giving order to our continuous operating system. Think about it, any of these actions is potentially a ritual. Of course, one could live all this as mere routine. It is our mind and our eyes that have the task of keeping alive this “ritual” spirit alive. Thus, waking up, dressing up, tiding up the bed, greeting our family, going out, etc. can go beyond the usual groove and it is certainly our job to make these moments richer and filled with details. We could add gratitude to all of our rituals too, opening the doors to contentment and allowing ourselves to “lose” some minutes in order to enable our fantasy and make these moments really ours: you will be surprised with what you could find, even if it’s the void you encounter!


We can all transform our lives by filling them with small observances that respect and honor the sacredness of life on Earth while fulfilling our spirits. We don’t need to become monks to make this. The rituals we are referring to shouldn’t tie us up – they don’t serve the purpose of creating new attachments. We have and we can be free and creative as long as we open our hearts to amazement and gratitude. Let’s try to be more kind and purposeful, to be playful but also serious, to maintain an acceptance attitude towards the inevitable change, to keep our rituals fresh and not pure mechanical.

Looks like rituals have come to make our lives kind of easier by allowing us to simply and plainly take any action sacredly and lovingly. There is room both for individual freedom and social, and according to this we could eventually become part of a small group seeking for the same qualities. It is in smaller settings that change can be seen, because the consensus is palpable, real. The mission is launched, it is now up to us to mark the evolution. Let’s keep our rituals and routines simple, in the midst of a small community without, of course, ignoring that we are part of a much bigger thing.


© Giacomo Coppo e Amanda Marquez

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